COworking, COndividere, COnvivere, COnfrontarsi, COmmunity, COoperare, COllaborare. Siamo nell’era dei social e anche il linguaggio si alimenta di questo concetto di socialità e partecipazione.
Oggi ho scoperto che quel “CO” può portare anche a un modo diverso di lavorare. Il Coworking è un’idea non convenzionale di intendere il lavoro e si basa sul concetto di condivisione degli spazi. Ma non solo, perché condividere uno stesso ufficio con professionisti che fanno il tuo stesso mestiere, o che esercitano una professione completamente diversa dalla tua, non vuol dire solo ammortizzare e contenere le spese per una postazione, un pc o una stampante. Ma anche avere la possibilità di vivere in un ambiente più predisposto a veder fermentare idee, progetti, relazioni.
E’ quello che emerso oggi a Milano nel CowoCamp 2014, l’incontro annuale dei fondatori di spazi di coworking in Italia, dove i coworking-manager delle principali realtà italiane si sono raccontati in una sorta di storytelling.
Di questa lunga staffetta di interventi, mi è rimasta impressa la presentazione di una entusiasta Ombretta Rossini, fondatrice della Fabbrica dei Mestieri di Brescia. Ombretta racconta che, dopo dodici anni come Consulente di organizzazione aziendale, ha deciso di dare una svolta, aprendo uno spazio di coworking. Qui ha incontrato finalmente persone “più pulite” e di valore, così diverse da quelle frequentate negli anni della consulenza.
Perché il successo di questo nuovo format sta proprio nella costruzione di community, di una rete di contatti che gravita attorno allo spazio di coworking e che inevitabilmente porta ad un incessante scambio di idee che genera lavoro. Ancora una volta il web, i social network, il passaparola diventano il veicolo più immediato per comunicare.
Poi c’è stata la presentazione di Piano C, innovativo esempio di coworking con un focus sulle donne, destinate in passato a scegliere tra un piano A, la carriera, e un piano B, la famiglia. Piano C permette alle donne di scegliere una terza via, offrendo non solo spazi lavorativi, ma anche servizi di cobaby, servizi salva-tempo e percorsi di orientamento e reinserimento lavorativo. E il successo ottenuto in poco tempo ci fa capire quanto margine di investimento ci possa essere in un Paese in cui scarseggiano ancora aziende che offrono ai propri dipendenti servizi extra per agevolare il connubio vita/lavoro.
Tra le altre ci sono anche realtà di coworking che valicano i confini nazionali come Talent Garden e ImpactHub, con un preciso posizionamento e target di riferimento. Il primo offre spazi di condivisione per il mondo digitale e creativo. Il secondo promuove progetti di sostenibilità sociale ed ambientale e offre percorsi d’incubazione per far decollare idee imprenditoriali e accelerare l’impatto su scala locale e globale.
Uno dei primi a credere nel coworking in Italia è stato Massimo Carraro, fondatore di Cowo, network italiano degli spazi di coworking e location di lavoro condiviso. Massimo è un po’ il padre putativo dei coworking italiani, ne ha visti nascere tanti e crede fortemente nel progetto. Vi invito a leggere questa lungo ma intenso racconto di Massimo sulla nascita della rete di COWOrking in Italia.
Recentemente Cowo ha creato un Osservatorio Permanente per studiare il fenomeno del coworking nel nostro Paese. La prima indagine svolta ha visto come attori protagonisti i fondatori dei coworking italiani, tutti intervistati per capire come sono arrivati all’apertura di queste location. Stasera, a conclusione degli interventi, sono stati divulgati i dati di questa indagine. Quello che è emerso da queste interviste è la fiducia che le persone nutrono nel progetto: tutti i coworking-manager hanno dichiarato che questa è stata la migliore scommessa fatta, nessun pentito, e che ciò che li ha spinti è stata la totale incoscienza.
La beata incoscienza di non avere nulla da perdere ma tutto da guadagnare! Li accomuna il coraggio di proporre qualcosa di nuovo, di osare nonostante la possibilità di fallire.
Detto questo, anche chi come me partecipa per la prima volta, intuisce subito che non è un percorso facile. Molti di loro hanno aspettato anni prima di aprire uno spazio, oppure attraversano periodi in cui i coworkers scarseggiano, ma nonostante ciò tutti continuano a credere fortemente nel valore del progetto. L’importante è andare oltre gli spazi, puntare alla rete, alla community, alle relazioni, perché solo così si generano idee, le idee creano i progetti, i progetti portano introiti.
Come dice giustamente Massimo, aprire uno spazio di coworking è un lavoro che richiede tempo. Bisogna prima documentarsi, capire, esplorare il territorio, selezionare il target di riferimento, individuare il valore aggiunto che si può apportare al network.
Non è un progetto del tipo pronti-partenza-via e un po’ di sano timore è comprensibile, perché l’Italia non è ancora un paese maturo per questo. Esistono molte paure, come quella che il coworker che ti siede a fianco e che fa il tuo stesso lavoro possa rubarti i clienti o le idee. Oppure si inciampa spesso nell’errore di iniziare a comunicare il proprio progetto di coworking solo una volta acquisito lo spazio di condivisione, senza capire l’importanza di generare prima la propria scia comunicativa.
Ho l’impressione che siamo solo all’inizio di questa avanguardia lavorativa e che ci siano tante cose da fare e tanti muri di scetticismo e diffidenza da abbattere. E’ stato bello comunque rendersi conto che esiste una rete di persone che ogni giorno scommette su un futuro alternativo. Si confrontano, si scambiano testimonianze, si supportano, sperimentano un nuovo modo di lavorare in cui al centro c’è la persona, la creatività, la passione.
Giada B.